Questa pandemia ci ha costretto improvvisamente ad imparare a lavorare in smart working. Abbiamo gestito casa, famiglia e lavoro in un solo spazio di tempo e di vita… ci siamo sentiti in colpa perché, in questa contemporaneità, abbiamo pensato di togliere qualcosa a qualcuno. Cosa abbiamo imparato per il futuro?
Un commento inaspettato
Negli ultimi due mesi abbiamo fatto molti workshop di retrospettiva su come sono andate le cose durante il lockdown. Assieme ai nostri clienti ci siamo confrontati sui modi in cui abbiamo conciliato vita, casa, lavoro e famiglia, per poter apprendere dal passato e costruire una nuova normalità a misura di essere umano.
Durante uno di questi workshop, parlando con alcuni partecipanti di come fossero andate le cose durante la pandemia, sono stata colpita da un’affermazione inusuale:
” Durante il lockdown a volte mi sentivo in colpa perchè mi sembrava di non lavorare abbastanza, di non stare abbastanza con i miei figli, di rubare tempo a tutte le attività della mia vita per farne altre.
Per ciò che riguarda il lavoro, non solo io temevo di non lavorare abbastanza, a volte mi sono trovato a credere che anche che gli altri lo pensassero perché non mi vedevano lavorare come accade in ufficio. Un po’ come nella vecchia mentalità industriale, ti vedo lavorare e quindi lavori.”
E non finiva qui!
“O forse ero io che non mi sentivo a posto con me stesso. Forse ero io che credevo di non lavorare abbastanza, dunque ho iniziato a riempirmi l’agenda per dimostrare a me stesso e agli altri che facevo il mio dovere!”
Chi decide se ho fatto o meno il mio lavoro?
Mi ha colpito molto questa esternazione, mi ha fatto riflettere su un paio di temi che forse non avevo mai esplorato prima. Mi ritrovo a chiedermi:
Ho bisogno di un capo che mi fissi obiettivi, tempi e scadenze per sapere di fare bene tutto quello che gli altri si aspettano da me?
Sono delega e controllo gli strumenti di riconoscimento del mio operato? Se questo controllo è mancato perché non abbiamo lavorato fisicamente negli stessi spazi e dunque non ci siamo visti, forse sono io che devo legittimare a me stesso la possibilità di gestire il mio tempo in modo più flessibile ed autonomo per sentire che ciò che faccio è ciò che ha senso fare.
Che mi sia venuta a mancare un alibi?
Forse mi è mancato l’alibi di attribuire al sistema, alla cultura organizzativa, al mio capo, alla mia azienda il fatto che la mia vita lavorativa sia piena di cose da fare, tutte per ieri sulle quali io non ho controllo e non posso esercitare volontà.
Spesso parliamo del fatto che sia la cultura organizzativa a plasmare l’immagine che abbiamo di noi stessi in qualità di professionisti. Il posto in cui operiamo ha dei riti che noi osserviamo per sentirci parte di una realtà più grande.
Quante volte ho sentito dire e ho detto: “Io lavoro fino a tardi, se esco prima delle 19.00 i miei colleghi ironizzano sul fatto che io faccia “mezza giornata”! E poi è a quell’ora che accadono le cose interessanti, le chiacchiere, i confronti…” Quasi io non avessi potere di determinare la mia presenza in ufficio, il mio modo di lavorare.
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E quando ti ritrovi in bermuda chi sei?
Dunque è chiaro che l’ambiente in cui lavoro ha un peso importante rispetto a come interpreto il mio ruolo, con quale stile e con quale ritmo. Ma poi arriva una pandemia, sei in smart working forzato, non hai il capo con il suo fiato sul collo, non hai colleghi che ti osservano e… E a quel punto scopri che i nemici peggiori non sono quelli che stanno fuori di te, ma sono quelli che stanno dentro di te: ciò che pensi di te e di ciò che dovresti fare per dire a te stesso che le cose vanno bene così.
E allora ti ritrovi a pensare che tu sei tu quello che si alza presto, si veste con la giacca e la cravatta, arriva in ufficio presto e torna tardi… E quando ti ritrovi a casa, con i tuoi figli che scodinzolano in giro e sei vestito con la maglietta colorata e i bermuda chi sei? come organizzi il tuo lavoro, la tua quotidianità?
Quale imperativo categorico ti spinge?
Come mostri a te stesso che stai facendo quello che devi fare?
Allora ti ritrovi a fare ciò che gli altri facevano per te, inizi a pianificare il tuo calendar cercando di occupare tutti gli spazi. Meeting a raffica tanto da non avere il tempo di bere un sorso d’acqua o di andare in bagno, fai riunioni con il bambino in braccio e con una mano giochi con il lego e con l’altra chatti con i colleghi… confuso e felice di aver fatto tutto!
E in tutto questo… lo smart dov’è finito?
Ricapitoliamo:
- Sono a casa, legittimato a organizzare il mio tempo e il mio lavoro, e mi sento di colpa perché gli altri pensano che non lavoro abbastanza.
- Ho perso i confini: corro come un matto per conciliare tutto e penso comunque di aver lasciato qualcosa indietro
- Io stesso fatico a legittimarmi questo stile di vita.
- Fondamentale è come me la vivo io, questa nuova normalità.
E quanto è smart tutto questo?
Beh, credo che questa complessità meriti qualche riflessione. E non mi riferisco ai programmi aziendali di educazione all’utilizzo dei tool per essere produttivi da remoto. Parlo di una riflessione profonda su che senso ha il lavoro, il mio ruolo, come e dove lo esercito. Forse la nuova normalità ha bisogno non di smart working ma di wise working!
E la cosa che mi sembra più interessante in questo wise working è che dipende da me, solo da me.