Perché facciamo le domande? Pensando a questo pezzo mi sono posta questa domanda e ho sorriso. Fa proprio parte del DNA di Peoplerise, sia nel nostro approccio di consulenza con i clienti, ma anche come metodo di lavoro che adottiamo internamente. Come abbiamo visto nel post precedente, i punti interrogativi infatti danno a tutti la possibilità di aprire uno spazio di esplorazione, in cui si può dare il proprio contributo e sono un po’ come un foglio bianco dove poter mettere il proprio tratto. Ma sono anche un potente strumento di auto-osservazione, per vedersi da fuori, come se ci fosse una prospettiva esterna che ci permette di cogliere qual è il potenziale di cambiamento presente nell’organizzazione e di capire qual è il prossimo passo verso il futuro che desideriamo creare.
Per arrivare a queste domande la metodologia di riferimento per noi è la Teoria delle Domande Potenti, sviluppata nell’ambito dell’Art of hosting. Secondo questa metodologia le domande che aiutano ad una riflessione sono quelle che iniziano con perché, chi, quando e dove. Mentre le domande che non creano movimento, interiore ed esteriore, sono quelle a cui possiamo solo rispondere sì o no, dal momento che chiedono solo una conferma o meno ad una soluzione o ad una proposta, che però è già definita.
In generale, uno degli aspetti più interessanti nel lavoro che facciamo con i clienti riguarda il nostro interesse a trasmettere questa capacità di porsi e di porre domande, proprio per acquisire questa attitudine a cogliere il potenziale che c’è in una situazione specifica, piuttosto che in un’organizzazione. E per ottenere questo risultato sicuramente un elemento chiave che aiuta è la curiosità, ossia il desiderio di cercare di capire la realtà che sta vivendo l’altro o gli altri, il provare interesse autentico per tutti i fenomeni che ci accadono intorno.
A volte, tuttavia, ciò che possiamo osservare nelle aziende è che alcune persone incontrano una propria resistenza interiore nel provare ad applicare ed a mettere in pratica l’arte del domandare. Questo perché veniamo da una cultura abituata a dare le risposte, piuttosto che a fare le domande. Ecco allora che se come capo o collaboratore pongo una domanda, posso provare il timore di apparire non competente, oppure di ammettere che non ho la soluzione ad una determinata questione. Quindi il porre la domanda o le domande, diventa un vero e proprio cambio di mindset.
Si passa infatti dall’abitudine a rispondere sempre a quello che i collaboratori chiedono fornendo già le soluzioni, ad un approccio in base al quale il leader aiuta il proprio team a farsi le domande appropriate, affinché le persone trovino la soluzione migliore per il processo o il progetto di cui sono attori protagonisti. E la complessità spesso sta nel fatto che questa trasformazione viene inizialmente vissuta come una perdita di competenza e di potere.
Infatti, un’altra qualità legata al fare domande è l’umiltà. Ammettere, innanzi tutto a noi stessi, che la soluzione, l’idea migliore o la più innovativa per rispondere ad un problema dell’organizzazione non risiede nelle singole competenze e capacità individuali, ma nel valore che si genera entrando in relazione con gli altri e mettendo a fattor comune e condividendo le proprie esperienze, intuizioni, idee.
Fare le domande è quindi un atto di leadership che richiede di mettere da parte il proprio ego, per guardare al bene comune che può essere generato per l’organizzazione, unendo le diverse professionalità, sensibilità e punti di vista.
Pagina facebook art of hosting https://www.facebook.com/groups/artofhosting/