Ad un certo punto della nostra vita può capitare che inizino a rimbalzarci dentro domande tipo: e quindi qual è il punto di tutto questo? È questa la vita che voglio? È così che desidero passare la mia esistenza su questo pianeta? Tranquilli siete in buona compagnia, molto più di quanto possiate credere. In Peoplerise questo momento di passaggio lo chiamiamo la ricerca del proposito o della chiamata.
Per intenderci, non si tratta di raggiungere la perfezione o l’illuminazione, ma di capire se la nostra vita è significativa come vorremmo o se alle nostre giornate manca qualcosa di importante. La ricerca della chiamata o del proposito è un percorso di sviluppo personale affascinante, avventuroso, a volte terrificante. Perché non c’è una ricetta e non è una strada che si può forzare. Ma si genera solo grazie all’attenzione che poniamo a quelle domande che risuonano dentro di noi. L’ascolto di quella voce, che se volete possiamo chiamare interiore, è infatti estremamente importante.
Ci sono alcune persone che conoscono la loro chiamata da quando sono molto giovani. Per me ad esempio non è stato così facile. Nella mia esperienza personale sapevo che mi stavo avvicinando alla mia chiamata, perché sentivo che l’esperienza che stavo vivendo non era quella giusta. Quindi grazie ad una serie di esperienze e un susseguirsi di “non è questo”, “non è nemmeno questo”, “questo non è”, la ricerca mi ha permesso di arrivare al punto.
E questa è la bella notizia, se ci lavoriamo e prestiamo attenzione, a poco a poco possiamo fare chiarezza dentro di noi. Però, la ricerca della chiamata, ad un certo punto, può richiedere di interrompere quello che stavamo facendo. Perché impegnarsi a trovare qualcosa di nuovo, comporta provare ad entrare in uno spazio di incertezza. E non c’è da spaventarsi se in alcuni momenti il dubbio e l’insicurezza diventano compagni di viaggio molto presenti, fa parte del pacchetto. Anche quella vocina che dice con insistenza “forse potrei tornare alla vita precedente, così sarebbe più sicura”.
C’è un gioco, un po’ macabro ma efficace, che ho sentito fare una volta. Consiste nel chiedersi: cosa vuoi che sia scritto sulla tua lapide? Non per forza questo qualcosa deve essere grande. Uno dei problemi infatti è che vengono portati spesso esempi di persone come Ghandi, Mandela, il Dalai Lama, San Francesco, Steve Jobs. Ma io non voglio essere loro, con tutto il rispetto e la stima. Io voglio essere Jake Esman e capire quello che io posso portare nel mondo!
A volte mi capita anche di sentire che vivere secondo la nostra chiamata o il nostro proposito è una cosa per privilegiati. Io penso che questo sia un modo per sfuggire alle domande e una scusa per non iniziare. Perché decidere di voler capire come rendere la nostra vita l’esperienza più preziosa possibile, richiede una scelta. È la scelta di vivere la nostra esistenza in modo significativo. Qualsiasi cosa questo voglia dire per noi. E non è nemmeno detto che debba essere qualcosa in cui siamo particolarmente bravi. Basta che sia quello che nutre la nostra anima. È il passare da un modello reattivo “non sono felice ma ho bisogno di soldi, quindi continuo a fare un lavoro che non mi piace”, a un modello creativo “non ho intenzione di lavorare solo per pagare le bollette, voglio poterle pagare facendo ciò che mi ispira ed è significativo per me”.
La palla quindi ora passa a voi: siete felici?