Vi è mai capitato di entrare in una stanza in cui, un gruppo di persone che non conoscete, sta lavorando insieme su un tema rilevante? Se vi è successo, intuitivamente saprete dire molto dei potenziali risultati di quel team a partire dall’atmosfera, dalle interazioni e dalle emozioni che avrete respirato. Se avrete notato che l’unico a parlare è il capo, che la maggior parte dei presenti ha gli occhi a terra o scarabocchia indifferente, o che il clima è teso, formale, e nessuno osa porre domande, non tarderete a ipotizzare che probabilmente le persone non si sentono pienamente a loro agio. E probabilmente, anche se avessero osservazioni interessanti da condividere, eviterebbero di farlo.
In un’atmosfera come questa, probabilmente le persone non si sentono abbastanza al sicuro di esprimersi. Molto spesso questo avviene perché lo spazio psicologico in cui sono chiamati a condividere è uno spazio:
- caratterizzato da forti regole gerarchiche, dove chi ha più potere ha più libertà di dire ciò che pensa, sente e intuisce;
- dove c’è un clima di “caccia al colpevole”, soprattutto generato da un’attitudine a vedere il tema di discussione come qualcosa su cui rispondere in maniera giusta o sbagliata;
- in cui c’è una forte competizione interna, alimentata da un sistema a premi (e talvolta punizioni), per cui gli altri membri del team non sono visti come alleati, ma come nemici.
In questo tipo di spazi insicuri, magari qualcuno condivide le proprie opinioni se interpellato, ma, a meno di non essere il superiore o lo specialista, evita accuratamente di raccontare le proprie preoccupazioni, o i propri entusiasmi, e men che meno le proprie intuizioni. Sotterranea c’è la paura di dare e ricevere feedback costruttivi, c’è una scarsa predisposizione ad esporre i propri dubbi, a fare domande “scontate”, e si esita ad esprimere idee in disaccordo con la maggioranza o con il superiore.
Eppure, sia ricerche accademiche condotte con le squadre ad alta diversità (di funzione, geografia, cultura) come quella della Stanford University[1], sia le esperienze collezionate sul campo da colossi dell’innovazione come Google[2], continuano a ripeterci la stessa cosa. Come un mantra, ci dicono che la sicurezza psicologica, quella che in Peoplerise chiamiamo spazio sicuro, è IL fattore che per primo rende possibile a gruppi di lavoro diventare efficaci.
Ma che cos’è lo spazio sicuro e perché è così importante?
Lo spazio sicuro è lo spazio in cui posso essere me stesso insieme ad altri, condividendo la mia vulnerabilità e la mia autenticità. È uno spazio dove non sono limitato da codici di comportamento legati al ruolo: posso essere un team leader e non avere la risposta; o posso essere uno stagista che condivide un’osservazione. Le parole errore, colpa e limite non esistono e nemmeno la paura di fare cose sbagliate. Perché lo spazio sicuro è uno spazio di possibilità, di pensiero divertente, di inclusione della diversità, di apprendimento ed esplorazione, dove è ammesso non sapere, non avere le risposte e rischiare di intraprendere quell’avventura di scoperta condivisa. Lo spazio sicuro è lo spazio delle domande e della vulnerabilità, mentre quello insicuro è lo spazio delle risposte finte e dei supereroi.
Ma è solo accettando di entrare in contesti di non-sapere, che passeremo dall’affidarci al passato della conoscenza, dei prodotti, delle relazioni consolidate, al muoverci verso il futuro emergente di altre possibilità. Ed è in questi luoghi che, tipicamente, abbiamo la possibilità di sviluppare altre parti di noi e di meravigliarci: è qui che si genera trasformazione e innovazione.
Come è possibile coltivarlo?
In Peoplerise, cerchiamo sempre di creare i presupposti affinché lo spazio dei nostri workshop sia percepito come sicuro:
- rendiamo esplicite alcune linee-guida dello stare insieme che vanno in questa direzione come la libertà di fare domande, il prendersi cura dei propri bisogni, l’incontro di persone al di là dei ruoli;
- incorniciamo il lavoro come un viaggio di apprendimento e non come un momento di performance;
- lavoriamo in ottica di prototipi e non di prodotti finiti;
- per primi, ammettiamo di non avere tutte le risposte e di essere fallibili;
- diamo esempio di curiosità, facendo tantissime domande e stimolando gli altri a farne;
- coltiviamo empatia reciproca e ascolto profondo attraverso esercizi che sollecitano il racconto di storie personali e la condivisione di emozioni;
- creiamo momenti di connessione profonda con se stessi e la propria motivazione, anche attraverso pratiche di mindfulness e lavoro con il corpo.
Spazio sicuro come spazio delimitato?
Al di là dei workshop, la nostra ambizione è quella di supportare le organizzazioni e le persone, soprattutto chi ha ruoli di responsabilità, ad alimentare in modo permanente una cultura dello spazio sicuro. In questo modo ognuno di noi, indipendentemente dal proprio ruolo, può essere creativo, proattivo e intraprendente nel guardare al proprio contesto per rintracciarne i bisogni, e sentirsi valorizzato nella capacità di proporre soluzioni per soddisfarli. In sostanza, ci piace contribuire alla diffusione di luoghi di lavoro in cui poter essere noi stessi al nostro meglio.