Ho scoperto John Steinbeck solo in questi giorni. Sì sapevo che era stato un premio Nobel, come sapevo del suo successo ad Hollywood con film come “la valle dell’Eden” ed altri.
Ma se il caro amico professor Piero Formica non mi avesse detto: “se vuoi comprendere questo momento, leggi Furore di Steinbeck”, non lo avrei acquistato.
La sua lettura è stata così travolgente come non mi capitava da tempo. Una scrittura asciutta ma che non perde alcuna nota. Come quei pianisti che eseguono Chopin e ne fanno emergere tutte le note assieme e al tempo stesso ogni nota è nitida, si differenzia. E poi la portata filosofica e sociale del messaggio, così attuale e al tempo stesso momento cardine della storia americana. Un periodo che di solito liquido frettolosamente come “grande depressione”, immaginandola come un infarto economico degli USA senza dedicare il mio sentimento a cosa abbia umanamente significato per un numero enorme di americani.
Nel libro ho trovato la voglia di rileggerlo: cosa che sto già facendo, andando a sottolineare quelle parti che, per avidità di lettura, non sono riuscito ad evidenziare prima, regalandomi una sua interiorizzazione profonda che sto trovando molto utile.
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Di questa rilettura “di ricerca” vorrei condividere alcuni stralci che hanno a che fare con le cose di cui mi occupo, per passione e per lavoro (nel mio caso le “due” fortunatamente coincidono spesso!). Nei giorni scorsi ho avuto modo di dialogare con l’amico professor Alberto Felice De Toni sulla capacità che alcuni romanzi hanno di rappresentare la complessità della realtà meglio di qualsiasi testo scientifico, e ciò che segue (scritto alla fine degli anni trenta) è davvero un bel pezzo di sviluppo organizzativo che io considero, con le diverse possibili narrazioni sul tema, universale.
“Così poteva accadere che una famiglia si accampasse vicino a una sorgente, e un’altra si accampasse lì sia per la sorgente sia per la compagnia, e una terza perché due famiglie avevano collaudato il posto e l’avevano trovato buono. E al tramonto si ritrovavano raccolte lì venti famiglie e venti macchine.
Di sera avveniva una cosa strana: le venti famiglie diventavano una famiglia, i figli diventavano figli di tutti…Ogni notte nasceva un mondo, attrezzato e completo in ogni sua parte, con amicizie create e inimicizie sancite…Ogni notte venivano sancite tutte le relazioni che formano un mondo; e ogni mattina quel mondo veniva smontato come un circo.
Dapprima le famiglie erano titubanti nel costruire e formare le parole, ma gradualmente la tecnica di costruire le parole diventò la loro tecnica. Allora emersero capi, si stabilirono leggi, presero forma codici. E man mano che si spostavano verso ponente, i mondi diventavano più completi e meglio attrezzati, poiché i loro costruttori avevano maturato esperienza nel costruirli…le famiglie impararono senza che nessuno glielo imponesse, quali diritti fossero mostruosi e andassero annientati: il diritto di violare la riservatezza, il diritto di far baccano mentre il bivacco dormiva, il diritto di seduzione o stupro, il diritto di adulterio e furto e omicidio. Tali diritti vennero estinti, poiché quei piccoli mondi non sarebbero sopravvissuti neppure per una notte con simili diritti in vigore.”
E noi quali diritti dobbiamo estinguere per veder progredire le tanto auspicate e necessarie nuove forme di organizzazione del lavoro?